Lunedì, 14 Gennaio 2008 21:31

La questione cilena

Scritto da  Gerardo

Riceviamo questa nota di Eugen Galasso e la sottoponiamo ai nostri lettori, che perchè in buona parte sappiamo interessati al mondo latinoamericano.



La questione cilena. Il ruolo del movimento e del partito cattolico

Premessa: Non è affatto esagerato ritenere che la "questione cilena" segni uno spartiacque non meno importante del 1989-1991. Se tra fine anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo crollano muri e regimi fondati (al di là delle esagerazioni propagandistiche dell'Ovest - chi ricordi i TG e i giornali d'allora sa l'entusiasmo da stadio con cui molti si "avventarono" sulla cosa...) su menzogna e oppressione, nel 1973 (la data esatta del golpe di Augusto Pinochet è l'11 di settembre, ma l' atto fu preparato molto prima e con una regia ben precisa, notoriamente firmata Kissinger e CIA), la dottrina Monroe, formulata a metà 1800, per cui diventava legittimo per gli States intervenire in America latina "ove gli interessi nazionali degli States vengano minacciati", molto elastica e applicabile senza troppi problemi diventava prassi corrente. Lo sciopero dei "camioneros" fu una tragica avvisaglia ma anche la preparazione economica del golpe, alla faccia di chi vorrebbe bandire fattori economici dalla storia... Ma, sul fronte della sinistra, cattolica e laica, marxista e non (dove i confini non sono mai così netti, in America Latina, al di là di pochi altri esempi), si segnalò un disagio: in Unidad Popular, certo "diffranta"nel suo panorama variegato (da un piccolo partito della sinistra cattolica e soprattutto dalla socialdemocrazia fino al MIR, che raggruppava l'"estrema sinistra") contrasti non da poco, che in nessun modo "toglievano"o mettevano in discussione la questione dell'imperialismo espansionista degli States e in particolare della destra repubblicana, già allora al potere, ma segnalavano una questione che, assieme ad altre concause, portò alla proposta di "Storico Compromesso" (l'alleanza, in sostanza, tra DC e PCI), formulata dall'allora segretario del PCI ma ri-disegnata anche, pur con modifiche, in proposte (ma anche progetti) quale quella dell'eurocomunismo, che vide uniti, per gran parte degli anni 1970, i segretari comunisti Berlinguer, Marchais, Carrillo, quindi gli esponenti comunisti dei principali partiti "sovietici" d'Europa, non senza tangere anche la sinistra cattolica, in genere i partiti cattolici e, certo con accenti diversificati, tutta la sinistra europea e nordamericana (a Mosca e a Pechino si giocava "al domino", come si sa, e al "ping-pong"). Di quella stagione, in apparenza, non rimane nulla; in realtà le liti in famiglia anche nel neo-nato PD italiano segnalano pur qualcosa, che "viene da lontano"; ma rimane anche, nello scacchiere internazionale totalmente mutato, un neo-imperialismo USA [su ciò cfr, per es. il bel saggio di Janette Habel, dal titolo"Washington a-t-il perdu l'Amerique latine" in "Le Monde diplomatique", Décembre 2007, n.645, pp.1 e 10-11].
In questo testo non si affrontano affatto i nodi delle questioni cui si è accennato, lasciandoli problematicamente al lettore, restringendo invece il campo al ruolo del movimento e del partito cattolico, sempre tenendo conto del décalage tra il primo e il secondo.

A) La questione cattolica, tra movimento e partito "cristiano".
La questione del cattolicesimo in Cile, come in tutta l'America latina, è profonda. Salvador Allende, il presidente democraticamente eletto nel 1970, esponente del Partito Socialista, per alcuni versi considerato, solo da alcuni però, "più a sinistra di quello comunista", era al tempo stesso socialista, cattolico, massone. Se il primo e il terzo termine sembrano più compatibili, se il primo e il secondo sicuramente anche, già all'epoca (almeno nella prospettiva conciliare, in specie se fecondata dalla teologia della liberazione), qualche problema lo crea, semmai, il rapporto con la massoneria, in tutta l'America Latina considerata spesso non solo"anticlericale" ma anticristiana e particolarmente anticattolica. In realtà, prescindendo da esempi storici (in Nicaragua Augusto César Sandino fu massone ma non "anticristiano", anzi), nella figura di Allende uno stacco tra queste "diverse appartenenze" non c'è. Assumere come esempi paradigmatici gli esempi della Rivoluzione Messicana ma anche quelli della lotta feroce tra Partido Conservador (di destra, clericale) e Partido Liberal (socialista, anticlericale) nella Colombia descritta dai/nei rormanzi storici di Gabriel Garcia Marquez, vorrebbe dire limitarsi a un segmento storico ottocentesco e al massimo (già con maggiori problemi) proto-novecentesco. A parte poi la specificità cilena (il Cile più"europeo", ma non privo di comunità "chollas", cioé indie, meno "interculturale", ma anche paese delle grandi distanze e del forte décalage città-campagna), si veda il caso-attuale, invero, ma tenendo conto della baudeliana "longue durée", non si tratta di una distanza incolmabile, tutt'altro, del presidente venezuelano Hugo Chàvez, le cui dichiarazioni filo-cubane si sposano con il suo cristianesimo un po' epidermico, ma sicuramente legato al "precipitato" della TDL, anzi delle teologie della liberazione. D'altronde, tornando più strettamente al Cile, già nel 1969, quando la sinistra democristiana si stacca dal partito/madre, dando luogo al MAPU (Movimiento de Acciòn Popular Unitaria), essa entra totalmente nell'ottica di UP, tra l'altro aderendo totalmente al progetto del governo di Allende, in cui entra a pieno titolo, senza alcuna riserva verso il marxismo, considerato quale "ideologia operazionale" [R. Ambrosio (primo segretario generale del MAPU), in "Vispera", luglio 1969, n.11, pp.60-61].
Nel 1971 al governo di Unidad Popular si aggiunge la Izquierda Cristiana, altro "troncone" dissidente dell'ex- Democracia Cristiana di Eduardo Frei, che alle elezioni del 1970 era ormai leader indiscusso e candidato premier della/per la Democrazia Cristiana cilena. Se un testo nobilissimo di Corrado Corghi pone in luce, da un lato, come in Jacques Maritain vi siano le basi per una critica cattolica al capitalismo, senza una fuoriuscita dallo stesso, mentre in Emmanuel Mounier a fortiori si possa/debba parlare di uscita dal capitalismo/suo superamento, proprio a partire dal presupposto personalista (il capitalismo schiaccia la persona, la aliena in ogni senso, tanto che Mounier -qui citato da Corghi- arriva a dire: "é vero che molti comunisti sono portatori di più autentica spiritualità di coloro che buttano loro in faccia lo spirituale; e che c'è più fecondo umanesimo nella rivoluzione sovietica che nelle chiacchiere di tanti socialisti umanisti" (3), affermazione, quest'ultima che oggi, ex post, si può criticare anche duramente, ma che all'epoca attrasse le migliori energie intellettuali, politiche e sociali di ogni continente (l'entusiasmo per il bolscevismo coinvolse tantissimi intellettuali - e non - non comunisti, cattolici di sinistra, ma anche socialisti, persino socialisti riformisti, libertari etc.), è anche vero che tali esperienze si fecondano (quella di Mounier soprattutto verso l'ala sinistra, ovviamente, dando anche luogo ai citati movimenti di "diaspora") poi con le teologie della liberazione, anche esogene, come l'esperienza di padre Louis Lebret, domenicano francese, nato alla fine del 1800 (1897), poi vissuto a stretto contatto con l'esperienza "latina", arrivando (sarebbe morto a Parigi nel 1966) a collaborare in maniera determinante alla "Populorum Progressio" di Paolo VI. [E. Mounier, Les certitudes difficiles, in Oeuvres, vol.IV, Paris, 1961, cit. in C. Corghi, “L'ideologia democristiana e l'Internazionale DC”, a sua volta in Franca Bertolini - Frieda Hermans, Milano, Mazzotta, 1974, p. 259].
Seppure estremamente avanzate, le posizioni di Lebret, che comunque non chiede la collettivizzazione sistematica dei mezzi di produzione, ma è, diciamo così, fautore di una sussidiarietà "spinta", finalizzata cioè al bene collettivo: in altri termini dove l'iniziativa privata non basti, anzi soffochi un progresso che non sia solo sviluppo, appare necessario l'intervento statale. Da posizioni inizialmente quasi conservatrici, Lebret si spinge verso una critica radicale dell'Occidente capitalistico, pur se non globalmente in sé, ma nelle sue articolazioni storico-concrete, in particolare rispetto al Terzo Mondo [cfr, inter cetera, il testo citato di Corghi, in Bertolini-Hermans, pp. 263-270].
Peraltro, appunto, anche Lebret non è solo "peritestuale" rispetto al movimento cattolico-democratico cileno, anzi, appunto, pienamente presente "infratestuale"allo stesso. Se poi consideriamo il generale approccio anche della stessa DC cilena, peraltro sintonica con l'Internazionale democristiana, esso non fu mai succube rispetto al capitalismo, in teoria, almeno, ché in realtà posizioni come quella di Eduardo Frei sono prone agli interessi USA e di Bretton Woods, la "seconda Yalta" economica. Come nota acutamente Corghi, "Malgrado queste dichiarazioni (quelle anticapitaliste come anti-"socialismo reale", e.g.), la realtà è quella dei partiti democristiani al potere con politiche di neocapitalismo illuminato e di centrismo in variegate posizioni" [Corghi, in op.cit., p.275].
Potremmo tranquillamente dire che il Cile, paese industrialmente e in genere economicamente avanzato rispetto alla media latino-americana, come circa un lustro dopo l'Argentina (altra "punta avanzata", pur con tutte le sue contraddizioni, rifrantesi anche nell'oggi) cede alla dittatura militare, con i "Chicago-Boys" iper-liberisti e friedmaniani al potere (ciò nella politica pinochetiana era ancora ben più evidente ma anche esplicitato che nella dittatura argentina di Videla e Viola... Chi scrive, dal canto suo, un decennio fa, ebbe una violenta polemica con il filosofo della politica germanico, cristiano-luterano, Hermann Luebbe, che in un corso pubblico sosteneva la bontà della politica economica del Cile di Pinochet, sentendosi replicare: "Forse dal punto di vista di un PIL comunque truccato (non certo per i salariati e i non garantiti cileni!) era espressione di una condizione politica internazionale, appunto legata ai parametri di Bretton Woods e della "guerra fredda". Né la condizione attuale, post-capitalistica (meglio diremmo iper-capitalistica e iper-liberista, post-tecnotronica, come vorrebbe Brezisnki, ex-consigliere di Carter e di altre amministrazioni democratiche), sembra essere migliore, anzi. In nessun documento della DC di Frei Montala (scelto comunque, a differenza di Tomic e di altri, perché più "a destra") durante la dittatura pinochetiana e quindi "a partiti silenziati", si trova mai una difesa del golpe, anzi ufficialmente condannato, ma neppure troppo larvate "giustificazioni socio-economiche" dello stesso sono facilmente rilevabili (si confronti per esempio il documento delle DC dell'America Latina - ODCA, in sigla): "Segnala che, in questo contesto, il golpe militare appare come una soluzione, negativa in se stessa, però direttamente o indirettamente provocata da settarismi e dal disastro economico e sociale e dell'odio fratricida prodotti dal governo della cosiddetta "Unidad Popular" [op.cit. Appendice II, p.286].
Testo di un'ipocrisia più unica che rara, anche stilisticamente sospesa, tra il detto e il non-detto, tra incisi parentetici, negazioni della negazione mascherate, degne di miglior causa... ma soprattutto di una tradizione democristiana che, a pensarci bene, non è poi dissimile da certe scelte della DC europea e segnatamente italiana che, però, a scelte simili non arrivò mai…

B) La realtà "latina" oggi. Il fantasma del 1973 e la realtà dell'impegno cristiano in politica oggi.
Da modesto conoscitore della realtà latinoamericana, anche dal punto di vista esperienziale (soggiorni in Venezuale e Colombia, all'inizio degli anni 2000, interventi in vari numeri di "Religioni e Società" di metà anni 2000, relazione alla "Summer School on Religions in Europe", San Gimignano, agosto 2004), considero la situazione attuale del Cile, dell'Argentina, del Brasile, del Nicaragua, della Bolivia e anche del Venezuela (con tutte le contraddizioni del populismo di Chàvez) comunque migliore di quella degli anni 1970. Ma in certi paesi (segnatamente la Colombia, in parte l'Ecuador, Trinidad/Tobago, Haiti, Santo Domingo in particolare) permane una forbice spaventosa tra ricchi e poveri, tra detentori del capitale (comunque si esplichi, anche e soprattutto finanziario) e salariati (per non dire degli esclusi, di chi è pagato a cachet o peggio occasionalmente o è disoccupato). In questi paesi, in genere, la presenza "cristiana" o non riesce a farsi sentire, in forma di sindacato, partito, movimento popolare, realtà associativa di base oppure rimane troppo flebile di voce... Spesso, rifluisce o nel marasma conservatore oppure (i settori progressisti, gli "scampoli" delle teologie della liberazione) nella sinistra politica, spesso senza rivendicare istanze forti, però. La situazione latinoamericana è abissalmente diversa da quella europea, per cui sarebbe ingeneroso "dedurne" conclusioni. Tuttavia, senz'altro, in Europa la situazione non appare migliore: in Italia, a livello mediatico (comunque fondamentale, nella nostra "società dello spettacolo") appaiono ormai quasi solo cattolici conservatori, dall'UDC ai cattolici nei partiti di destra, ai Pezzotta ma anche alle Binetti (che è nel PD!) di turno. Le presenze "altre" certamente vi sono, ma sono soffocate e/o imbavagliate, spesso isolate. Prescindendo dalla Germania, dove la CDU-CSU (certo con accezioni diverse) ha da decenni le caratteristiche "secolarizzate" di un partito conservatore, più raramente centrista, con scelte economiche quasi sempre iper-liberiste, in Spagna l'identità cattolica, nel Partido Nacionàl Popular (PNP, nato, come ben si sa, con un inquietante retaggio post-franchista) sembra ormai essersi radicata in un viscerale anti-modernismo: no al matrimonio gay, no a Zapatero su tutta la linea, con una difesa ad oltranza del nazionalismo unitaristico, con dei secchi no non solo all'indipendentismo basco ma anche all'autonomismo basco e catalano (soprattutto, ma non unicamente ormai), ma anche con una politica economica ultra-conservatrice. Non voglio qui proporre una carrellata (dove non mancherebbe un riferimento alla Polonia, con uno ieri inquietante, di cattolicesimo fascistoide, mentre ben diversa è la situazione irlandese, per quanto è dato conoscerla ai "non-addetti ai lavori") che non avrebbe senso, perché fatalmente incompleta, ma segnalare alcune punte dell'iceberg, che a mio parere ripropongono il problema dell'impegno del cristiano (in una prospettiva ecumenica, almeno teoricamente mantenuta anche dai vertici della gerarchia cattolica, mi rifiuto di limitarlo al solo cattolico) in politica. Non vorrei sembrare a tutti i costi un sostenitore della negazione musiliana del partito cristiano ("un esempio di ermafroditismo politico", diceva appunto Musil); ma, tramontati quasi dappertutto i partiti "cristiani" o espressamente dichiarati-dichiarantisi tali, forse è meglio ripiegare su forme associative e su movimenti d'opinione (non su gruppi di preghiera e movimenti ecclesiali a priori ultra-dogmatici e ultra-conservatori a livello religioso e teologico, solo in seconda battuta anche politicamente, privi d'ogni autonomia di pensiero, alla faccia dell'impegno conciliare all'autonomia in ultima istanza del credente) che, senza"torcicollo" verso il Vaticano, sappiano guardare criticamente all'oggi e al domani, nel confronto anche aspro, rinunciando ad assurdi "unitarismi".

(Eugen Galasso)
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